IL DESTINO COMUNE DI GIUDICI ED AVVOCATI
Youfoggia.com ha ascoltato alcune considerazioni in merito alla riforma Cartabia dall’avv.G.D.Caizza .
Chi è Giandomenico Caiazza 62 anni di Salerno è il presidente dell’Unione camere penali. Una leadership conquistata con una vittoria di misura, 27 voti di scarto, su Renato Borzone. La partita della presidenza ,in un congresso molto partecipato, si è chiusa con 150 voti per il candidato romano e 177 per il campano.
“Mi pare evidente sia giunto il momento di impegnarsi tutti per fare in modo che il dibattito sulla crisi della magistratura esca dal pantano nel quale si è confinato. La crisi di credibilità della giurisdizione -perché è di questo che stiamo parlando- non è né una questione su cui la magistratura abbia una sorta di esclusiva corporativa, né la imperdibile occasione per regolare conti tra tifoserie da sempre opposte. La sfiducia dei cittadini nella amministrazione della giustizia è una cruciale questione di qualità della vita democratica di un Paese. Solo un pensiero irresponsabile ed incline al caos come regola di convivenza può considerare la debolezza della magistratura alla stregua di una occasione da coltivare.
Abbiamo bisogno di una riflessione comune tra avvocatura e magistratura, alla ricerca di un percorso condiviso che sappia portarci fuori da quel pantano, e sappia restituire credibilità alla giurisdizione. Per parte nostra -dell’avvocatura penalistica, intendo- stiamo da mesi provando ad offrire -fino ad oggi senza alcun successo, in verità- un segnale molto chiaro alla magistratura italiana. Non a caso abbiamo intitolato la nostra inaugurazione dell’anno giudiziario a Catanzaro, lo scorso febbraio, “Tutelare la libertà del difensore per garantire l’indipendenza del giudice”.
Il nostro punto di vista è molto chiaro. La storia giudiziaria di questi ultimi decenni ha spostato il baricentro della giurisdizione penale dalla sentenza alla incriminazione. Decenni di erosione dei principi liberali del diritto penale, accompagnati da un formidabile concerto mediatico, hanno condotto ad una identificazione del concetto stesso di “giustizia” con l’operato degli uffici di Procura. Nel giudizio sociale sui fatti penali, il parametro decisivo è dato dalla ipotesi accusatoria. La verifica dibattimentale di quella ipotesi, semplicemente, non ha alcun valore. La mafia, la corruzione, insomma ciò che insidia il bene comune viene sanzionato dall’inchiesta eclatante condita da arresti eccellenti, non dalla sentenza.
La conseguenza letale di questo schema è che sono due i soggetti spinti ai margini della giurisdizione: il giudice e l’avvocato. Il primo, come dicevamo, non ha volto, nome e ruolo nel rito sociale del giudizio penale. Il GIP ha un ruolo “esecutivo” rispetto alle richieste del PM nella fase delle indagini, tant’è che si parla immancabilmente del P.M. come colui che arresta o sequestra, ignorandosi che il PM può solo chiedere (ad un Giudice, appunto), di arrestare o sequestrare. Il Giudice che poi emetterà la sentenza compie un atto, come dire, postumo, che solleciterà qualche attenzione, magari malevola, solo se smentirà sorprendentemente l’azione meritoria della Procura. Quanto al difensore, il cui ruolo è proprio quello di sollecitare e determinare il controllo del giudice sulla ipotesi accusatoria, questi è solo un intralcio, un disturbatore prezzolato del corso della giustizia.
La cosa stupefacente è che questo schema degenerato della idea stessa di giurisdizione è stato pienamente introitato dalla magistratura italiana, nonostante essa sia costituita all’80% da Giudici, e solo al 20% da Pubblici Ministeri, ai quali ultimi i primi da sempre hanno delegato e delegano la propria rappresentanza politica, mediatica e culturale. Una resa incondizionata, una deriva ancillare che lascia basiti, e che meriterebbe finalmente di essere analizzata, discussa e compresa.
Il recupero della credibilità della amministrazione della giustizia e di chi ne è protagonista passa dunque necessariamente dal recupero della centralità della giurisdizione, del dibattimento, del Giudice; dal drastico abbandono della identificazione del “dire giustizia” con l’atto di indagine; dal riscatto del valore solenne del giudizio di responsabilità rispetto alla mera ipotesi accusatoria.
Ma questo percorso, che dunque paradossalmente accomuna in un unico destino avvocatura e magistratura giudicante, esige una riflessione profonda innanzitutto all’interno della magistratura stessa, sia nella quotidianità del suo agire, sia nel suo strutturarsi associativo e politico. I danni causati da questi decenni di sconvolgimento delle più elementari coordinate liberali della giustizia penale sono incommensurabili, sicché intraprendere quel percorso non sarà affatto facile. Ma questa è la strada, ed è una strada comune tra giudici ed avvocati: già solo comprenderlo sarà un primo, ma decisivo passo avanti.