Il mestiere del Pubblico Ministero

Il pm è un magistrato che si occupa nello specifico di assicurare la corretta osservazione delle leggi e promuovere l’iniziativa penale per reprimere i reati, inoltre valuta l’applicazione delle misure di sicurezza nei confronti degli indagati

“Mi rivolgo a quei magistrati che il 28 e 29 marzo sceglieranno la propria sede di servizio

Dott. R. G. Maruotti, sostituto procuratore  alla Procura di Rieti dopo l’elezioni dell’ANM nel 2020 entra a far parte dell’organismo sindacale della magistratura,quando era Procuratore della repubblica a Rieti Giuseppe Saieva. Nella sua carriera professionale ha coordinato molte indagini di particolare rilevanza,l’ultimo è stato quello sul crollo delle palazzine ex Iacp ad Amatrice, avvenuto durante il terremoto del 2016,facendo condannare cinque persone risultate responsabili. Maruotti personaggio molto attivo, uno dei promotori per la creazione,nel 2017 a Rieti della sottosezione dell’Associazione nazionale magistrati, presieduta dal giudice civile Francesca Sbarra mentre il pubblico ministero Edoardo Capizzi è il segretario. Sempre nel 2017  il dott. Maruotti fu tra i relatori del convegno sui reati contro la pubblica amministrazione.

Rocco Gustavo Maruotti, sostituto procuratore del Tribunale di Rieti,componente  dell’Anm .LAnm il sindacato delle toghe. Come è composto il sindacato in base allultima votazione. La sinistra di Area con 1.785 voti, Magistratura indipendente  con 1.648, Unicost, con 1.212,Autonomia e indipendenza con 749,Articolo 101 651 voti. Luca Poniz di Area, il presidente uscente, 739 voti. Tra i nuovi eletti, anche il magistrato R.G. Maruotti che opera a Rieti.

Chi è Rocco Gustavo Maruotti ,Youfoggia.com, lo ha chiesto direttamente. Il dott. Rocco G. Maruotti sostituto procuratore alla Procura di Rieti al quale abbiamo chiesto come mai questa pubblicazione.Lo stesso ha risposto  per indirizzare i nuovi sostituti procuratori

Fate attenzione a non “personalizzare” le indagini e i processi, perché rendereste un pessimo servizio alla Giustizia: una condanna non è una vittoria del Pubblico Ministero, così come un’assoluzione non è una sua sconfitta; in altre parole, siate “di parte” ma in modo “imparziale”, perché interesse del Pubblico Ministero è solo quello al rispetto della legge. 

Abbiate coraggio, non tiratevi mai indietro, ma evitate imputazioni azzardate, perché come disse Francesco Carnelutti “il processo è esso stesso una pena” e non è compito del Pubblico Ministero irrogare sanzioni.

Ricordatevi che il Pubblico Ministero è il primo giudice dei fatti, e non delle persone, e cercate di non abdicare mai a questo compito, soprattutto quando sarete chiamati a vigilare sulla sussistenza dei presupposti che legittimano limitazioni della libertà personale.

Non dimenticate mai che dietro ogni fascicolo c’è un’umanità, da cui non dobbiamo farci condizionare, ma di cui dobbiamo sempre tenere conto.

Siate duri, prima di tutto con voi stessi, ma senza mai perdere la tenerezza”.

Rocco G.Maruotti, nel raccontare la propria esperienza professionale, si rivolge ai magistrati che il 28 e 29 marzo sceglieranno la propria sede di servizio. 

Svolgo le funzioni di Sostituto Procuratore alla Procura di Rieti dal mese di gennaio del 2015.

Quando decisi di dedicarmi alla preparazione del concorso in magistratura le immagini strazianti degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e quelle dei più potenti politici della Prima Repubblica che sfilavano nelle aule di giustizia del Tribunale di Milano, che negli anni ’90 spinsero tanti neo-laureati in giurisprudenza a diventare magistrati, erano immagini che avevano certamente segnato la mia crescita, sia sul piano etico che culturale, ma che avevo avuto il tempo di “metabolizzare”. Pertanto, la mia scelta di essere un magistrato del Pubblico Ministero non è maturata, come è stato per molti altri, sulla scia emozionale provocata dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, né sull’onda impetuosa prodotta dalla stagione di Mani Pulite. Si è trattato, perciò, di una scelta, per quanto convinta, forse più “razionale” che “emotiva”.

Ricordo, però, ancora molto nitidamente l’emozione vissuta nel momento in cui venni a sapere di aver superato gli scritti, così come la soddisfazione e il sollievo provato il giorno degli orali.

È seguito il tirocinio alla Corte d’Appello di Roma, prima in Tribunale, poi in Procura. Ed è stato solo al termine del tirocinio generico che ho maturato la decisione di fare il Pubblico Ministero. Inizialmente mi sentivo più portato per le funzioni giudicanti penali, soprattutto perché mi affascinava, e continua ad affascinarmi molto, l’udienza penale, come luogo di formazione della prova nel contraddittorio tra le parti, e il momento della decisione, in cui la giurisdizione, esercitata “in nome del Popolo italiano”, si manifesta in tutta la sua “sacralità”.

Ma, come spesso accade, nella vita di ognuno ci sono incontri che cambiano il corso della Storia.

Il mio, dal punto di vista lavorativo, è stato quello con un collega affidatario, osservando il cui esempio ho capito che quello del Pubblico Ministero, soprattutto se svolto con abnegazione e passione civile, non è un mestiere qualunque. Infatti – per dirla con le parole di Giorgio Gaber – sia che si scelga di fare il P.M. “per moda, per principio, o per frustrazione”, ci si rende ben presto conto che “non si fa il Pubblico Ministero, ma si è Pubblico Ministero”. E questo, almeno per me, è molto chiaro ogni volta che squilla il telefono del turno, magari in piena notte, e vengo chiamato ad affrontare, sul momento, questioni giuridiche da cui può dipendere, anche solo per poche ore, l’altrui libertà personale; oppure ogni volta che, mentre sono concentrato nello studio dei fascicoli o nella scrittura di una richiesta di misura cautelare, vengo distolto, per l’ennesima volta, da un ufficiale di polizia giudiziaria che deve riferirmi con urgenza gli esiti di una determinata attività di indagine, o da un avvocato che mi deve sottoporre un’istanza urgente, o, in alcuni casi, persino da una persona offesa, se non addirittura da un indagato che vuole parlarmi “per spiegarmi come stanno davvero le cose” (non dovrebbe mai accedere eppure a volte succede anche questo); ma anche ogni volta che, ad esempio, incrocio lo sguardo di un genitore a cui un incidente stradale ha portato via l’unico figlio o di una donna che finalmente ha trovato il coraggio di denunciare quel marito che da anni la maltrattava e che adesso ripongono anche nel P.M. la loro speranza di ricevere Giustizia.

Quando arrivò il giorno di scegliere la sede di servizio, avevo, perciò, già deciso che sarei stato un Pubblico Ministero e questo mi aiutò a limitare a tre le possibili opzioni: 1) la Procura di Napoli Nord, un ufficio giudiziario di nuova costituzione e di grandi speranze, in una città, Aversa, non troppo lontana dalla città in cui vivevo e dove avrei avuto la possibilità di fare un’esperienza molto importante sul piano professionale; 2) la Procura di Foggia, la città in cui ero nato e dove avevo vissuto per più di venti anni, ma anche la città della c.d. “Quarta Mafia” (per chi volesse farsi un’idea consiglio la lettura del libro del collega Antonio Laronga, “Quarta Mafia”, ed. PF, 2021), in cui, perciò, sarei tornato volentieri per provare a fare da P.M. qualcosa di utile per la mia terra; 3) la Procura di Rieti, che era l’unico ufficio giudiziario tra quelli disponibili che mi avrebbe consentito di continuare a vivere a Roma, ma lavorando in un contesto sicuramente meno stimolante sotto il profilo criminale.

La Procura di Foggia, sebbene a malincuore, dopo un po’ la scartai perché mi resi conto che, anche se la tentazione di sceglierla era forte, non sarebbe stato un bene andare a lavorare, in prima nomina e quindi con poca esperienza, in un contesto rispetto al quale probabilmente non avevo il giusto distacco emotivo.  A quel punto, se mi fossi fatto guidare dall’istinto, avrei scelto la Procura di Napoli Nord, ma ragioni familiari e la difficoltà di stare lontano da casa tutta la settimana, peraltro senza sapere, nel caso in cui ne avessi avuto la necessità, quando avrei potuto fare rientro nel Distretto della Corte d’Appello di Roma, mi spinsero a scegliere la Procura di Rieti, una scelta apparentemente rinunciataria, ma che feci nella consapevolezza che ovunque fossi andato avrei fatto del mio meglio.

La Procura di Rieti è il più piccolo ufficio giudiziario del Distretto di Roma, il cui organico è composto da soli cinque Sostituti, generalmente tutti residenti a Roma e quasi tutti con una certa anzianità di servizio, nel quale, perciò, difficilmente si crea quel clima che si respira invece nelle piccole Procure del Sud, in cui la maggior parte dei colleghi, oltre ad essere in prima nomina, è spesso anche fuori sede. Ma come in tutti i piccoli uffici, anche alla Procura di Rieti, dopo un po’, ci si sente come in famiglia e i rapporti, non solo tra i colleghi, ma anche con il personale amministrativo e con la polizia giudiziaria, sono caratterizzati da un senso di appartenenza e di solidarietà reciproca. Inoltre, dal punto di vista lavorativo, le piccole Procure se, da un lato, presentano l’inconveniente, dovuto a ragioni logistiche, di essere caratterizzate da un basso tasso di specializzazione, che costringe i Pubblici Ministeri che lavorano in quegli uffici a confrontarsi quotidianamente con le questioni giuridiche più disparate, d’altro canto, proprio per questo motivo, offrono anche una grande opportunità di crescita.

Ad ogni modo, l’ultima cosa che avrei potuto immaginare quando misi piede per la prima volta alla Procura di Rieti era che, da lì a qualche mese, mi sarei dovuto confrontare con una vicenda che mi avrebbe segnato per sempre, non solo sotto il profilo professionale, ma prima ancora sul piano umano.

Era la notte del 24 agosto 2016, quando, a distanza di poco più di un anno dalla mia presa di possesso, mi ritrovai, insieme ai pochi colleghi in servizio, ad affrontare, sotto il profilo giudiziario, quella immane tragedia che è stato il terremoto del Centro Italia, che, nel solo circondario di Rieti, tra i comuni di Amatrice e Accumoli, ha provocato 250 vittime. Di cosa successe quella notte e nei giorni immediatamente successivi conservo tanti ricordi che porterò per sempre con me. Le indagini che seguirono per accertare se la causa di quei crolli e dei conseguenti decessi fosse da rinvenire solo nell’evento sismico o anche nella mancata osservanza della normativa anti-sismica, e i processi che ne sono scaturiti, sono stati per me, pur non volendo, un banco di prova fuori dall’ordinario, non solo sul piano professionale, ma anche su quello emotivo, di cui avrei fatto volentieri a meno, ma che ho affrontato come meglio ho potuto.

Di tutta questa vicenda – che, nella sua drammaticità, mi ha insegnato anche che fare il P.M. può voler dire trovarsi, da un momento all’altro, a dover gestire una situazione più grande di te e che, quindi, bisogna farsi trovare pronti, in qualsiasi momento, anche se, come nel mio caso, sei al tuo primo incarico e hai preso servizio solo pochi mesi prima – c’è un episodio che, più di qualunque altro, mi ha segnato e che non dimenticherò mai.

E anche questa, se vogliamo, è la storia di un incontro che mi ha cambiato la vita.

Era in corso il processo relativo al crollo delle cc.dd. “case popolari” di Amatrice, sotto le cui macerie persero la vita 18 persone, e nel quale è stata pronunciata la sentenza di primo grado l’8 settembre 2020. Al termine della più drammatica delle udienze di quel processo, nel corso della quale era stata ascoltata in aula la testimonianza di alcuni dei sopravvissuti al crollo dei due edifici di edilizia popolare di Amatrice, il più giovane di loro, Claudio Leonetti, un ragazzo di 24 anni che la notte del 24 agosto 2016, quando aveva solo 21 anni, aveva perso, in un solo istante, madre, padre, sorella e fidanzata, mi venne incontro per ringraziarmi per quello che secondo lui stavo facendo “per la Giustizia e per la Verità” e mi fece dono di un libro dal titolo “Tutto il bello che c’è” (ed. Paoline, 2018), nel quale Claudio, dopo aver vissuto per quasi due anni da solo in una roulotte, per trovare la forza di reagire e per riconciliarsi con la vita, aveva deciso di raccontare la sua storia.  Claudio, il cui racconto è un vero e proprio “inno alla vita”, pur avendo vissuto un dramma che avrebbe piegato chiunque, è riuscito a trovare uno spiraglio di luce in quell’abisso di tenebre che lo aveva avvolto all’improvviso, ed è diventato, almeno per me, un esempio a cui penso tutte le volte che ho la sensazione di essere travolto dalle piccole difficoltà quotidiane. Nelle giornate più difficili o quando mi sento sopraffatto dal lavoro, rileggo la sua dedica e questo mi basta per ricordarmi che la vera ricchezza di questo mestiere sta nella possibilità di venire a contatto con i sentimenti più profondi dell’essere umano e che è mio dovere non sprecare questa grande opportunità che il destino mi ha offerto per essere ogni giorno migliore di me stesso.

Vorrei concludere questa mia breve testimonianza cercando di dare pochi consigli, ma in cui credo molto, a quei giovani colleghi in tirocinio che sceglieranno di svolgere le funzioni requirenti:• fate attenzione a non “personalizzare” le indagini e i processi, perché rendereste un pessimo servizio alla Giustizia: una condanna non è una vittoria del Pubblico Ministero, così come un’assoluzione non è una sua sconfitta; in altre parole, siate “di parte” ma in modo “imparziale”, perché interesse del Pubblico Ministero è solo quello al rispetto della legge;• abbiate coraggio, non tiratevi mai indietro, ma evitate imputazioni azzardate, perché come insegna Francesco Carnelutti “il processo è esso stesso una pena” e non è compito del Pubblico Ministero irrogare sanzioni;• ricordatevi che il Pubblico Ministero è il primo giudice dei fatti, e non delle persone, e cercate di non abdicare mai a questo compito, soprattutto quando sarete chiamati a vigilare sulla sussistenza dei presupposti che legittimano limitazioni della libertà personale;• non dimenticate mai che dietro ogni fascicolo c’è un’umanità, da cui non dobbiamo farci condizionare, ma di cui dobbiamo sempre tenere conto;• siate duri, prima di tutto con voi stessi, ma senza mai perdere la tenerezza.

Siete entrati in Magistratura in uno dei momenti più difficili, perché è in discussione l’essenza stessa della nostra legittimazione, ossia la nostra credibilità come categoria, che è minata da condotte che non sono certamente a voi attribuibili, ma delle quali paghiamo tutti, voi compresi, le conseguenze. Ma l’unico modo che abbiamo per recuperare, collettivamente, la nostra credibilità è lavorando con diligenza e operosità, vivendo questa professione come un servizio che va reso con dignità e correttezza, e ispirando il nostro agire a valori di disinteresse personale, di indipendenza e di imparzialità. Di esempi a cui ispirarci ne abbiamo tanti, e non mi riferisco soltanto ai tanti magistrati che hanno pagato con la vita il loro impegno a tutela delle istituzioni democratiche, ma anche ai tantissimi magistrati che quotidianamente svolgono il loro compito con dedizione e rigore.

La Giustizia dell’avvenire è nelle vostre mani. Sono certo che ne farete buon uso e saprete onorarla.

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