Emiliano sì, Emiliano no. Se il Movimento 5 Stelle va a caccia di alibi rifiutando la verità

Voto o non voto sulla famigerata piattaforma Rousseau, il Movimento 5 Stelle in Puglia politicamente ha già perso. È crollato sotto il peso delle sue contraddizioni interne, della debolezza della sua struttura organizzativa e dei suoi gruppi dirigenti, della totale assenza di una linea politica capace di non nascondersi dietro qualche centinaio di voti sul web. 

La confusione senza fondamento politico

Il tira e molla circa un ingresso nella Giunta regionale guidata da Michele Emiliano è la dimostrazione di una confusione in cui proprio non si è in grado di mettere ordine. Neppure guardando alla prospettiva nazionale – dove l’alleanza con il Partito Democratico ha da tempo abbandonato l’aspetto della convergenza tattica antisalviniana per assumere il profilo di una vera e propria intesa politica – i dirigenti pugliesi sono riusciti a capire cosa fare. Navigano a vista, l’un contro l’altro armati. Mentre Emiliano tira dritto per la sua strada, nomina il nuovo esecutivo e lascia vacante una casella – quella al Welfare – nell’attesa che dal pianeta a Cinque Stelle decidano come procedere.

Il travaglio legittimo su scala locale

Intendiamoci, i dubbi interni al Movimento sono legittimi. In Puglia più che altrove. Perché è qui che i grillini hanno svolto con pervicacia e costanza una intransigente azione di opposizione al governo regionale riconfermato a settembre nelle urne. È qui che hanno denunciato malefatte (vere o presunte), scandali e clientele. Un accordo con Emiliano, da questo punto di vista, vorrebbe dire rimangiarsi per intero tutte le dichiarazioni, le interpellanze, le interrogazioni, le mozioni e gli Ordini del Giorno presentati in Consiglio regionale. Significherebbe convivere in esecutivo con personaggi sulla cui “moralità” i Cinque Stelle hanno costruito battaglie e hanno lanciato strali ed accuse. Significherebbe aprire una frattura drammatica con la propria base elettorale, peraltro in costante flessione ma in Puglia riuscita grossomodo a tenere botta. Non una decisione da assumere a cuor leggero, insomma. 

La convergenza ideologica

Eppure è un tema che esiste. E che non si può derubricare a “manovra personale e di palazzo”, come ha insinuato velenosamente l’ormai ex candidato presidente Antonella Laricchia evocando (senza mai nominarla) la consigliera eletta in Capitanata Rosa Barone, cioè il nome in predicato di fare il proprio ingresso in Giunta. La questione è tutta politica. E riguarda il presente ed il futuro del Movimento più che il suo passato, assolutamente superato dai valzer romani che hanno fatto nascere il Governo “giallo-verde” prima e quello “giallo-rosso” poi. L’alterità dei Cinque Stelle rispetto a centrodestra e centrosinistra è un lontano ricordo, sepolto politicamente ed elettoralmente. È un’identità franata alla prova dei fatti. Tanto più a guardare i provvedimenti che il Conte bis ha recentemente approvato, primo tra tutti l’abolizione dei cosiddetti “Decreti Sicurezza” di salviniana memoria. Quell’orientamento, piaccia o no, ha inaugurato una chiara “svolta” ideologica nell’agenda del Movimento, collocandolo per intero in quello che Pierluigi Bersani ha più volte definito “un campo largo progressista”. Fuori dal politichese: i Cinque hanno scelto – consapevolmente – di essere un’azionista di minoranza (elettoralmente) della coalizione che oggi è al Governo. Una traiettoria dalla quale è impossibile tornare indietro, rispolverando la retorica “antisistema” delle origini.

Il paravento del maggioritario

Naturalmente, soprattutto in un sistema ad impianto maggioritario, in cui gli elettori collocano con il loro voto al Governo o all’opposizione ciascuna proposta politica, un accordo con Emiliano ed un ingresso organico nella sua maggioranza sarebbero una sorta di tradimento della volontà elettorale. Il Consiglio regionale non è il Parlamento, l’elezione diretta del presidente della Regione non ha nulla a che fare con la dinamica parlamentare che ha portato Giuseppe Conte alla presidenza del Consiglio dei Ministri prima con la Lega e poi con Liberi e Uguali. Tutto vero. Tutto giusto. Ma sono obiezioni che hanno più la veste dei cavilli che un impianto realmente politico. 

L’alleanza che si fa finta di non vedere

La realtà, infatti, continua ad essere difficilmente occultabile: PD e M5S sono alleati, non semplici sottoscrittori di un “contratto di Governo”. Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio sono parte dello stesso perimetro politico. Il loro avvicinamento – reso possibile solo grazie alla “mossa del cavallo” di Matteo Renzi – è nato per impedire al centrodestra di vincere democraticamente le elezioni e a Matteo Salvini di salire a Palazzo Chigi. Da allora, però, quella collaborazione si è fatta costante, le convergenze si sono moltiplicate, gli slogan e gli insulti reciproci degli uni e degli altri sono manifesti vecchi e sbiaditi. Far parte dell’esecutivo regionale guidato da Michele Emiliano sarebbe nient’altro che la prosecuzione di questo percorso. Finalmente una forma di trasparenza nei confronti dei cittadini – mettendo fine alla finzione di un tripolarismo che non esiste – ed un atto di realismo politico. 

“Cespuglio” del centrosinistra e non più alternativa ai due poli

È stato inutile rincorrere la futilità degli Stati Generali del Movimento aspettando un chiarimento che non c’è stato. Così come è ipocrita continuare ad invocare la manfrina del voto on line. La verità è da tempo alla luce del sole. Tutti la conoscono. Anche coloro i quali proprio non riescono ad ammetterla: il Movimento 5 Stelle non è più la risposta al fallimento dei due poli storici, ma semplicemente un “cespuglio” del centrosinistra.

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